Le parole che fanno male: la storia di Samuele ci riguarda tutti

Spread the love

Qualche giorno fa una mamma di Gioia ha raccontato pubblicamente la sofferenza del figlio Samuele, poco più che decenne, insultato dai compagni per il colore della pelle. Le sue parole hanno fatto emergere una ferita che non riguarda solo una famiglia, ma un’intera comunità. Da una parte c’è la vittima, un bambino che porta addosso il dolore dell’esclusione, dall’altra ci sono i “carnefici”, coetanei che ripetono insulti e atteggiamenti spesso senza capire fino in fondo la gravità di quello che fanno. Nei gruppi di pari, alcuni ragazzi cercano motivi per umiliare o escludere. Non si tratta di adulti consapevoli, ma di ragazzini che riflettono, come specchi, ciò che hanno assorbito in casa, a scuola, nei contesti in cui crescono. Ed è proprio qui che si gioca la sfida educativa.

I bambini non nascono con atteggiamenti discriminatori. A quell’età non hanno una visione ideologica del mondo, ma imparano osservando e riproducendo ciò che li circonda. Anche quando non si parla esplicitamente di etnia, etichettare o deridere chi appare diverso – per sensibilità, fragilità, gusti o abbigliamento – rischia di insegnare che l’esclusione sia un comportamento normale e accettabile. È qui che gli adulti devono prestare attenzione: ogni battuta, ogni forma di scherno, anche involontaria, diventa un modello che i bambini assorbono e ripetono.

A dieci o undici anni si comincia a costruire la propria identità guardandosi negli occhi degli altri. Basta una parola sbagliata per segnare, per lasciare un marchio che resta a lungo. Eppure basta anche un gesto di rispetto per cambiare il corso delle cose. Per questo non basta dire “sono solo bambini”: servono interventi chiari e costanti, perché ridicolizzare o stigmatizzare chi non si conforma alla maggioranza non è mai parte “naturale” della crescita, ma il frutto di modelli appresi.

Il post di quella mamma ci chiede di guardare in faccia una responsabilità collettiva: se un bambino impara a ferire, vuol dire che da qualche parte ha respirato parole o comportamenti che lo hanno autorizzato a farlo. Se vogliamo che impari a rispettare, tocca agli adulti – genitori, insegnanti, istituzioni – dare l’esempio ogni giorno. Non possiamo cambiare ciò che è accaduto a Samuele, ma possiamo decidere che nessun altro bambino debba vivere la stessa ferita. La solidarietà non cancella la sofferenza, ma ne attenua l’impatto e trasmette ai bambini il messaggio che non sono soli e che la diversità non è un ostacolo, ma un valore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *